La Globalizzazione e i no global
- Andrea La China
- 28 set 2018
- Tempo di lettura: 6 min
Il termine globalizzazione indica "unificazione del mondo", di tutto il pianeta, analizzando l’aspetto economico, culturale, sociale, politico e dei consumi.
Per comprendere il significato di globalizzazione basti pensare che i vestiti che indossiamo, i computer, i cellulari vengono fabbricati in Asia. Il cibo che mangiamo viene coltivato nell’Unione Europea e in Sud America, beviamo bibite americane (Coca Cola) e ascoltiamo musica americana e inglese e oggi anche musica proveniente da Paesi da noi molto lontani.
Pochi decenni fa le distanze rappresentavano dei limiti per la comunicazione, oggi grazie alla nuova tecnologia possiamo parlare con ogni arte del mondo e, treni, automobili e aerei hanno permesso di raggiungere in poche ore luoghi che in passato erano raggiungibili impiegando alcun giorni, settimane, mesi.
Nel mondo della globalizzazione i mass media ci informano su fatti nel momento in cui accadono e internet ci consente di accedere a informazioni velocemente e ci permette di dialogare con persone che si trovano anche dall’altra parte del mondo.
Tutto ciò ci fa comprendere che nel mondo globale non esistono più i confini tra gli Stati e ogni cittadino può considerarsi cittadino di un villaggio globale.
Analizzando l’aspetto economico nel mondo globale, merci, denaro e uomini si muovono liberamente e le economie degli Stati sono sempre più legate tra loro: l’andamento economico di un Paese influenza quello degli altri e i governi devono affrontare situazioni che da soli non sono in grado di affrontare. Nascono quindi le organizzazioni economiche (Unione Europea – NAFTA ad esempio) che curano i rapporti economici tra gli Stati membri.
La nuova organizzazione dell’economia ha determinato la concentrazione della ricchezza in tre zone del mondo: Europa occidentale, con l’Unione Europea; l’America del Nord, con l’organizzazione NAFTA a cui aderiscono Canada, Stati Uniti, Messico e l'Asia orientale con l’organizzazione detta Mercosur a cui aderiscono Argentina, Brasile, Paraguay,
Uraguay e Venezuela.
Nelle tre aree considerate più ricche si realizzano circa il 70% degli scambi commerciali e l’80% degli investimenti. Viene inoltre esercitato il controllo dell’informazione e della forza militare che garantisce il potere politico ed economico a livello mondiale.
Tra le più recenti forme di cambio è nata nel mercato globale l’e–commerce, il commercio elettronico. Attraverso internet tutto può essere comprato e venduto: dai titoli di Borsa alle automobili, dai programmi per i computer ai viaggi ecc.
Nel mercato globale anche il narcotraffico, il traffico della droga, assume dimensione globale.
L’eroina ricavata dalla lavorazione dell’oppio proviene da Afghanistan e dal “Triangolo d’oro“ formato da Thailandia, Laos e Myannar.
La cocaina, estratta dalle foglie di coca, proviene dall’America Latina (Colombia, Perù, Bolivia).
La cannabis proviene dal Marocco, Tunisia, Senegal, Pakistan, India, Nepal.
Di contro, i Paesi consumatori sono Europa, Stati Uniti, Australia, Giappone.
I Paesi produttori di droghe basano la propria economia sulla narcocoltura.
Ad esempio il traffico di oppio costituisce il 40% dell’economia del Paese coltivatore.
Alcuni Stati finanziano le loro attività, soprattutto le attività militari, la gestione o il controllo della produzione di droghe. Tutto ciò avviene spesso con il consenso degli Stati consumatori.
Negli anni ’80, infatti, gli Stati Uniti hanno consentito il narcotraffico al dittatore Noriega in Nicaragua in cambio del suo impegno contro i movimenti comunisti della regione. Anche in Pakistan in passato sono stati utilizzati i proventi del traffico di eroina per acquistare armi destinate ai ribelli anti–indiani nel Kasmir. Molti conflitti locali in Africa si sono prolungati grazie al commercio della cannabis o de quat, una pianta diffusa nei Paesi arabi, le cui foglie vengono masticate o utilizzate in infusione nel the.
Se la produzione delle piante da droga è controllata da gruppi politicizzati o da organizzazioni criminali, i contadini del luogo sono costretti ad abbandonare le colture che forniscono sostentamento per loro e le loro famiglie e utilizzare le proprie terre a vantaggio delle organizzazioni del narcotraffico.
Colpire un tale fenomeno non è facile. Una delle soluzioni è stata quella di invitare i contadini a distruggere le colture di piante di droga in cambio di un indennizzo in denaro che comunque non è sufficiente a sostenere le famiglie. Dopo un certo tempo la coltivazione per i narcotrafficanti riprende.
Talvolta le colture di droga vengono eliminate utilizzando erbicidi e defolianti la cui azione è però dannosa per le acque e il terreno.
Le organizzazioni economiche internazionali hanno cercato di limitare la coltivazione delle droghe favorendo lo sviluppo di nuove coltivazioni ad esempio di caffè, ma gli stessi contadini oppongono resistenza ad abbandonare una produzione sicuramente positiva.
Alcuni risultati positivi, comunque, sono stati raggiunti: in Afganistan le coltivazioni di oppio sono diminuite del 19%, in Colombia, Paese che produce circa la metà della cocaina presente sul mercato globale, la produzione si è ridotta del 18%.
La globalizzazione è comunque un fenomeno positivo: possiamo viaggiare in tutto il mondo, comunicare con qualunque parte del mondo, essere informati, in tempo reale, su ciò che accade nel mondo.
La globalizzazione, inoltre, può effettivamente ridurre la povertà grazie alla libertà di commercio e di denaro.
Negli ultimi anni però, alcuni hanno messo in evidenza aspetti negativi della globalizzazione e sono nati dei movimenti di protesta che chiedono di mettere al centro dell’attenzione mondiale non gli interessi economici ma i diritti degli esseri umani e l’esigenza di difendere l’ambiente.
Questi movimenti che si oppongono alla globalizzazione sono noti con il nome di no–global.
La prima manifestazione si è svolta nel 1999 a Seattle (USA).
Secondo i no–global, l’organizzazione economica mondiale è pericolosa perché accentua gli squilibri tra paesi ricchi e paesi poveri.
In effetti gli interessi economici delle multinazionali, che controllano gran parte della produzione e del commercio mondiale, sono prioritari rispetto a qualsiasi altra esigenza.
Un’azienda può acquistare i materiali per le proprie lavorazioni dove costano meno e ciò ha determinato un calo dei prezzi delle materie prime danneggiando i Paesi in via di sviluppo che sono dei grandi esportatori.
Contemporaneamente sono state imposte alte tariffe doganali sui prodotti agricoli e industriali per i quali la concorrenza dei paesi poveri avrebbe potuto nuocere ai paesi ricchi.
La globalizzazione ha favorito non solo la libertà di movimento delle merci ma anche di denaro: ciò avrebbe favorito la crescita dei paesi meno sviluppati favorendo investimenti stranieri nelle imprese locali.
Spesso, invece, la libera circolazione di denaro viene usata per speculazione finanziaria: le imprese possono decidere di spostare capitali da uno Stato all'altro secondo la propria convenienza.
Tutto ciò ha accentuato il divario tra paesi ricchi e paesi poveri così come sono cresciute le disuguaglianze sociali all'interno di ciascuno Stato.
La globalizzazione ha ancora un altro effetto negativo: il degrado ambientale soprattutto nei paesi in via di sviluppo a causa dello sfruttamento delle loro risorse da parte dei paesi ricchi.
Fra il 1990 e il 2000 sono state distrutte 125 milioni di ettari di foresta (una superficie equivalente a 4 volte l’Italia) per il 97% situate nella zona tropicale, quindi nei paesi meno sviluppati.
Le cause principali della deforestazione sono la crescente richiesta di legname da parte dei paesi ricchi e il diboscamento di vaste aree che alcune multinazionali vogliono utilizzare per la coltivazione di prodotti destinati all'esportazione. Danni all'ambiente sono anche determinate dal trasferimento di produzioni industriali nei paesi in cui la legge è meno severa nei confronti di chi inquina.
La globalizzazione influenza ogni aspetto della nostra vita: i mezzi di comunicazione con la pubblicità, diffondono ovunque gli stessi messaggi e condizionano i nostri consumi e il nostro stile di vita.
Lo stile globalizzato è ben rappresentato dai centri commerciali delle gradi distribuzioni: sono strutture uguali in tutto il mondo che espongono gli stessi prodotti, caratterizzati da confezioni identiche e da un marchio riconoscibile (Mc Donald’s, Coca cola, Nike ad esempio).
Possiamo trovare questi prodotti in qualunque parte del mondo e facilmente riconoscibili grazie al loro marchio inconfondibile.
Anche il gusto si sta globalizzando: alcuni alimenti, pizza, hamburger, Kebab sono presenti in tutto il mondo e il sushi giapponese ha oggi una diffusione planetaria.
Il prodotto che meglio simboleggia la globalizzazione è la Coca Cola diffusa ovunque, pubblicizzata ed utilizzata in tutto il pianeta.
Il rischio di tutto ciò è l’omologazione, vale a dire annullamento delle differenze.
Per evitare l’omologazione è necessario valorizzare gli elementi delle diversità, cioè le radici culturali di ogni zona, le tradizioni regionali, la lingua e i dialetti, la cucina locale.
A tal proposito movimenti e associazioni, in Italia ad esempio l’organizzazione Slow food, si battono per valorizzare i prodotti locali, il cibo tradizionale per limitare la diffusione del gusto globale.
La globalizzazione può essere un fenomeno positivo se le prospettive offerte dalla globalizzazione non siano al servizio dei poteri economici ma siano a beneficio di tutti: paesi ricchi e paesi poveri.
Tratto da appunti di geografia economica.
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